Oggi ci metto la faccia, anzi, più di una, per raccontare alcune sfighe tipiche dell’essere un architetto attraverso i cinque principi per cui nel tempo sono stata colta da archinoia (sono gli unici? ancora non lo so). Ringrazio innanzitutto la mia ormai ex-collega F. per aver condiviso alcuni fra i miei migliori momenti lavorativi e per aver dato vita allo straordinario materiale fotografico che utilizzeró in questo post per illustrare alcuni aspetti della mia esperienza professionale. Cominciamo.
Foto #01
Vedi alla voce: Creatività. Ovvero mancanza di –
Quando mi chiedono quale sia il mio lavoro e io rispondo “Sono un architetto”, a meno che io non abbia incontrato un altro individuo della mia stessa specie, la reazione è genericamente di entusiasmo ed ammirazione, del tipo: “Che figata, ci avrei scommesso che facevi un lavoro creativo”.
È tutta colpa della TV e dei vari format “Ti rifaccio casa” se questa falsa convinzione è così diffusa perché, diciamocelo, fare l’architetto NON significa fare una professione creativa, salvo che per pochi fortunati eletti: è una delle prime amare verità che mi hanno colpita una volta compiuto il passaggio da studentessa a lavoratrice (forse durante alcuni corsi ho dormito troppo perché un dubbio mi sarebbe potuto venire anche prima).
Essere architetto significa svolgere un lavoro prevalentemente tecnico, in cui rientrano tante diverse materie: burocrazia, ingegneria, legge, scartoffie da ufficio, matematica, ragioneria, nerdismo, psicologia, relazioni pubbliche, lettura del pensiero.
Di creatività finora mi sembra di averne trovata davvero poca e io, di mia iniziativa, ci ho messo tutta quella possibile, ma spesso, fra un foglio excel e una interminabile riunione di coordinamento, ti scappa davvero la fantasia.
Antidoto sperimentato finora: impegnarsi in un’attività creativa extralavorativa. Io, per esempio, ho avuto un mio negozio su Etsy e ho collaborato alla gestione della community di EtsyItaliaTeam. Ora, a quanto pare, scrivo.
Soluzione ottimale: trasformare il proprio lavoro in qualcosa che piaccia davvero.
Foto #02
Equilibrismo
Preciso per chi non lo avesse subito notato che nella foto n. 2 tengo perfettamente in equilibrio sulla testa un piccolo modello di igloo: non è un nuovo sistema per mantenere una postura corretta al computer, ma un gesto emblematico di quello che è il mestiere di architetto, in equilibrio continuo sul filo di diverse competenze, ma soprattutto impegnato in una pratica di equilibrismo costante nella vita.
Oggi lavoro e domani chissà (da declinarsi anche nella versione “Oggi lavoro e domani chi lo sa se mi pagano”): con la mia partita Iva potrei trovarmi a piedi all’improvviso, senza troppi cuscinetti fiscali o ammortizzatori sociali.
Fisso un appuntamento e all’ultimo momento do buca perché mi è successo qualcosa di imprevisto: una riunione improrogabile, una consegna che “ah! ma non te l’avevo detto che era per ieri?”, un gatto che ha fatto pipì sulle tavole.
Programmo di partire per il weekend e all’ultimo devo rinviare perché sono stata coinvolta in un nuovo progetto con scadenza da qui a tre giorni, per l’estrema soddisfazione di fidanzati, amici e parenti.
Ne deriva uno stato di incertezza costante all’interno del quale è necessario imparare a destreggiarsi fin da subito per riuscire a rimanere in piedi.
Antidoto sperimentato finora: gettarsi da un aereo col paracadute per migliorare le proprie doti di equilibrio (giuro).
Soluzione ottimale: essere per primi consapevoli del valore del nostro tempo e del nostro lavoro e imparare a stabilire bene le priorità, o, in alternativa, a farsi pagare bene.
Foto #03
Insonnia. Vedi anche alla voce: Ansia
Gli architetti dormono poco. Iniziano a perdere ore di sonno all’Università con gli esami di laboratorio e tutte quelle notti trascorse (da soli o in gruppo) a lavorare su tavole e tavole da completare per la revisione o l’esame del giorno successivo. Sì perché probabilmente si sono ridotti all’ultimo momento possibile, dedicando tutto il tempo precedente al processo progettuale o semplicemente procrastinando.
Questa abitudine non sono mai riuscita a cambiarla per colpe sia mie sia non mie. Mi è capitato di lavorare fino a 30 ore consecutive per consegnare in tempo un concorso perché chi avrebbe dovuto prendere le decisioni finali non lo faceva mai, e anche nei lavori più ordinari le cose sono cambiate di poco. Il costante ritardo finisce per moltiplicare la possibilità di una dimenticanza o di un errore e per alimentare attacchi d’ansia che alla lunga finiscono per tormentare anche i sonni più tranquilli.
Tutto questo viene in genere dimenticato per trovarsi a ripetere gli stessi errori al successivo incarico.
L’ansia è provocata anche dalla sensazione di insicurezza che deriva dalla necessità continua di mantenersi aggiornati, sulle nuove normative, nuove tecniche, nuovi materiali, nuove competenze, nuovi programmi, nuovi progetti fatti dagli altri architetti (quelli famosi): insomma raggiungere il livello PRO e vivere di rendita nel nostro lavoro sembra una meta irraggiungibile.
Antidoto sperimentato finora: timidi tentativi di programmazione delle attività, nel lavoro come negli obiettivi personali di formazione, dandomi scadenza palesemente irraggiungibili. Dormire un numero imbarazzante di ore nel weekend.
Soluzione ottimale: imparare a programmare davvero in modo ragionevole e a rispettare obiettivi e scadenze previste. No app, sì agenda cartacea.
Foto #04
Possessione demoniaca (nel mio caso meglio nota come raggiungimento dello stadio Atram)
Non tutti gli architetti raggiungono lo stadio di possessione demoniaca, ma a me periodicamente succede. Fare l’architetto è un mestiere che alla lunga logora (*) e siccome io per carattere sono abituata a incassare e resistere finché riesco, arriva inevitabile il periodico momento dell’esplosione. E, lo so, non è una bella cosa da vedere. In genere quello è il momento in cui cambio lavoro, ma purtroppo non sempre.
Questa foto è stata scattata una domenica sera di un periodo lavorativo particolarmente intenso, farcito di tanta stanchezza e grandi incazzature, e la tengo sempre presente (pur spaventandomi anch’io ogni volta) per ricordare i limiti che non voglio più raggiungere.
Antidoto sperimentato finora: fare un corso di kickboxing.
Soluzione ottimale: imparare a dire di NO.
Foto #05
Resistenza (ora e sempre)
(*) E va bene, sì, fare l’architetto è un lavoro che logora, ma sono consapevole che ci sia di peggio e che non tutti gli architetti riescano a lavorare, pur volendolo. Quindi il mio, più che un lamento, vuole essere un promemoria generale per me stessa, in primis, ma anche per chi si affaccia sul mondo di questa professione per la prima volta, per ricordare che va bene essere umili, soprattutto quando si è all’inizio e si ha tutto da imparare, ma che ad un certo punto è necessario farsi coraggio e far valere i propri diritti oppure seguire il consiglio di questa saggia canzone (minuti 0:20 e 1:04 per i più impazienti).
Antidoto sperimentato finora: ripetersi come un mantra “Perché io valgo” (L’Oréal docet).
Soluzione ottimale: dire sempre quello che si pensa, in modo garbato e diplomatico, a chiunque. Se anche questo non serve, imparare a fregarsene e mandare tutto e tutti a quel paese, ogni tanto: mollare tutto e poi ricominciare.
Decalogo finale di riepilogo:
- Trasformare il proprio lavoro in qualcosa che piaccia davvero.
- Essere per primi consapevoli del valore del nostro tempo e del nostro lavoro.
- Imparare a stabilire bene le nostre priorità.
- Farsi pagare bene.
- Imparare a programmare le attività, nel lavoro e nella formazione.
- Rispettare obiettivi e scadenze previste.
- Imparare a dire di NO. Fondamentale.
- Dire sempre quello che si pensa, in modo garbato e diplomatico, a chiunque.
- Imparare a fregarsene e mandare tutto e tutti a quel paese, ogni tanto.
- Avere il coraggio di mollare tutto e poi ricominciare.
– Nessun animale è stato maltrattato durante gli scatti di queste foto.
– Nessun intervento di photoshop è stato adottato per peggiorarle.
Non ho mai capito perché ci si deve ridurre SEMPRE all’ultimo minuto per consegnare un lavoro, con conseguente ore in più.
Ciao Elena,
Purtroppo le implicazioni sono molte, a volte imputabili a noi (come categoria tendiamo a essere pignoli e a non essere mai soddisfatti e quindi strafare), a volte imputabili a fattori esterni: più il progetto è complesso, più sale il numero di attori coinvolti (consulenti e altri professionisti), per non parlare delle implicazioni di budget, delle tempistiche degli Enti, degli interessi coinvolti, etc. I ritardi quindi diventano all’ordine del giorno, anche perché i Clienti tendono a chiedere tempi sempre più ristretti e la programmazione non può tenere conto di imprevisti (che poi però capitano…).
Bellissimo questo post mi ha ricordato i miei ultimi 5 anni {ma davvero ho resistito cosi tanto??} in studio/societa ingegneria prima di dare il benservito!. Possessione demoniaca compresa, han tirato fuori il peggio di me ahhahh Tutto serve, dicono 😉
Grazie, Elisabetta! Mi fa piacere che siano esperienze condivise anche da altri, mi rassicura di non essere matta solo io! E comunque hai ragione: tutto serve, e forse era la strada che dovevamo percorrere per approdare ad altro. Sono contenta che tu ce l’abbia fatta!
È vero smarty sei brava! Il tuo post cade a fagiolo: passato ultimo mese come nella foto #3 solo allo scopo di applicare il punto 9! W archinoia!
Grazie Chiara! Meno male che qualcuno dà il buon esempio. Io ho tanta strada da fare!
Post bellisimo e che è perfetto per qualunque professione dell’Ingegno.
Temo che a volte anche i consulenti ambientali come me siano affetti da “possessione demoniaca” (ho in archivio foto peggiori)….
Complimenti mi piace un sacco come scrivi!
Grazie davvero, Isabella!
In effetti credo che siano situazioni comuni a tanti professionisti – più o meno – liberi!